Ritratto di Giotto, anonimo del XVI secolo, Louvre
   
 

Giotto di Bondone

 
 

Giotto di Bondone, forse diminutivo di Ambrogio o Angiolo, conosciuto semplicemente come Giotto (Vespignano, 1267 – Firenze, 8 gennaio 1337), è stato un pittore e architetto italiano.


Vita e opere

Origini

La vita di Giotto di Bondone è stata da sempre oggetto di discussione tra gli studiosi. Secondo la maggioranza degli esperti egli nacque nel 1267 (tale ricostruzione si basa sulla verseggiatura che il Pucci fece della "Cronica" di Giovanni Villani ed è piuttosto attendibile, salvo il posticipare di uno o due anni la data secondo alcuni pareri), anche se tutt'ora una minoranza della critica tende a porre la sua data di nascita nel 1276, secondo la cronologia che nella seconda metà del XVI secolo offrì il Vasari, nella biografia dedicata all'artista. La data fornita dal Vasari sarebbe inattendibile qualora si tenga per assodato che Giotto doveva essere almeno ventenne attorno al 1290, cioè nel momento in cui si ritiene che abbia iniziato i lavori pittorici a fresco nella Basilica Superiore di san Francesco ad Assisi.

Nacque a Vespignano di Vicchio nel Mugello da una famiglia di contadini che, come molte altre, si era inurbata a Firenze e, secondo la tradizione letteraria, finora non confermata dai documenti, aveva affidato il figlio alla bottega di un pittore, Cenni di Pepi, detto Cimabue, iscritto alla potente Arte della Lana, che abitava nella parrocchia di Santa Maria Novella. Tuttavia certo è che i primissimi anni del pittore sono stati oggetto di credenze quasi leggendarie fin da quando egli era in vita. La prima volta che Giotto venne ufficialmente nominato è in un documento recante la data 1309, nel quale si registra che Palmerino di Guido restituisce in Assisi un prestito a nome suo e del pittore.


Apprendistato e primo viaggio a Roma

Dovrebbe essere solo una leggenda l'aneddoto della "scoperta" del giovane pittore da parte di Cimabue, mentre disegnava con estremo realismo le pecore a cui badava, riportata da Lorenzo Ghiberti e da Giorgio Vasari. Altrettanto leggendario è l'episodio di uno scherzo fatto da Giotto a Cimabue dipingendo su una tavola una mosca: essa era così realistica che Cimabue tornato a lavorare sulla tavola cercò di scacciarla. A quel punto Cimabue gli disse che aveva superato se stesso e poteva aprire bottega anche da solo.

In realtà, sul fatto che Cimabue sia stato maestro di Giotto, basato esclusivamente sulla tradizione letteraria, ci sono solo labili indizi di tipo stilistico: la collaborazione nella bottega del maestro fiorentino avrebbe però consentito a Giotto di seguirlo a Roma nel 1280 circa, dove era presente anche Arnolfo di Cambio, e avrebbe potuto successivamente introdurlo nel cantiere di Assisi.

Giotto si sposò verso il 1287 con Ciuta (Ricevuta) di Lapo del Pela. Ebbero quattro figlie e quattro figli, dei quali uno, Francesco, divenne pittore.

 
 

La Madonna di San Giorgio alla Costa


La Madonna di San Giorgio alla Costa, 1290, tempera su tavola, Museo diocesano, Firenze


Secondo alcuni studiosi la prima tavola dipinta indipendentemente da Giotto in ordine cronologico è probabilmente la Madonna col Bambino di San Giorgio alla Costa (Firenze, oggi al Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte), che potrebbe essere anteriore agli affreschi di Assisi. Per altri,invece, si tratterebbe di un'opera successiva al cantiere di Assisi ed anche alla Croce di Santa Maria Novella.

Questa opera mostra una solida resa della volumetria dei personaggi le cui attitudini sono più naturali che in passato; il trono è inserito in una prospettiva centrale, formando quasi una "nicchia" architettonica, che suggerisce un senso della profondità.

La novità del linguaggio di questa tavola, relativamente piccola e decurtata lungo tutti i margini, si comprende meglio facendo un raffronto con gli esempi fiorentini di Maestà che lo avevano immediatamente preceduto, come Coppo di Marcovaldo e Cimabue.

Arte in Toscana | Giotto di Bondone | La Madonna di San Giorgio alla Costa

 

La Basilica superiore di Assisi


Giotto, Storie di san Francesco, La cacciata dei diavoli da Arezzo (dettaglio), basilica superiore di Assisi


Sino al 1311 non vi sono documenti che ricordino il nostro autore, ma intorno al 1296 sino al 1304 Francesco. Probabilmente in questi anni compie un viaggio a Roma e a Rimini, forse anche a Padova.

La Basilica di San Francesco di Assisi era stata completata nel 1253, con grandi interessi sia dei francescani, quale sede centrale dell'ordine, luogo di sepoltura del fondatore e meta di pellegrinaggio, sia del papato, che vedeva nei francescani dei fedeli alleati per rinsaldare il legame con i ceti più umili. L'inizio della decorazione ad affresco non è conosciuto, per la distruzione degli antichi archivi nel XIX secolo: essa dovrebbe risalire a poco dopo la metà del XIII secolo per la Basilica inferiore, con l'intervento di pittori umbri (Maestro di San Francesco) e verso gli anni 1280 - 1290 nella Basilica superiore con artisti forse scelti direttamente dai papi.
Non vi sono certezze relative all'attribuzione a Giotto di questo affreschi, ma la maggior parte dei critici, sulla base di alcuni documenti peraltro abbastanza vaghi e sulle note acclamazioni ella tradizione, ci conducono verso un riconoscimento abbastanza diffuso. Certo è che Giotto ha realizzato gli affreschi facendosi aiutare da collaboratori. Egli si riserva le parti che ritiene più difficile e più importanti. Naturalmente deve essere di un unico maestro, e quindi di Giotto, il disegno e progettazione. Una unità stilistica ma soprattutto compositiva unisce in modo indissolubile i dipinti che vengono elencati a secondo del luogo nel quale si trovano nella Basilica superiore di San Francesco di Assisi. [4]

 

Le Storie di Isacco


I primi affreschi nella chiesa superiore vennero realizzati nel transetto da pittori oltremontani e poi dalla bottega di Cimabue, dove probabilmente doveva trovarsi anche il giovane Giotto. L'intervento diretto di Giotto è stato insistentemente ravvisato in due scene nella parte alta della navata con le Storie di Isacco (Isacco benedice Giacobbe e Isacco che scaccia Esaù che si trovano nella terza campata all'altezza della finestra), genericamente attribuite a un Maestro di Isacco, che aveva una particolare predisposizione alla resa volumetrica dei corpi, tramite un accentuato chiaroscuro, e che era capace di ambientare le proprie scene in un ambiente architettonico fittizio, disegnato secondo una prospettiva ed uno scorcio laterale[1]. Diversa è anche la tecnica usata: per la prima volta si usò l'affresco a giornate, anziché a pontate. Alcuni invece riconoscono nel Maestro di Isacco il romano Pietro Cavallini o lo scultore toscano Arnolfo di Cambio, gli unici che avessero mostrato di saper esprimere in maniera credibile i valori di volume e di coerenza spaziale nelle loro opere.
Storie dell'Antico Testamento (attribuzione non certa a Giotto)
1 Isacco benedice Giacobbe - 2 Isacco respinge Esaù - 3 Giuseppe gettato nel pozzo - 4 Giuseppe riconosciuto dai fratelli - 5 Uccisione di Abele - 6a 6b 6c 6d Dottori della Chiesa

 

 


Le Storie di san Francesco


Giotto, Storie di san Francesco, La cacciata dei diavoli da Arezzo (dettaglio), basilica superiore di Assisi

"Quando il beato Francesco vide sopra la città di Arezzo i demoni esultanti e al suo compagno disse: "Va', e in nome di Dio scaccia i diavoli, così come dal Signore stesso ti è stato ordinato, gridando da fuori della porta: "; e come quello obbedendo gridò, i demoni fuggirono e subito pace fu fatta.'"


In seguito, la fascia inferiore della navata venne occupata dalle ventotto Storie di san Francesco databili tra l'ultimo decennio del XIII secolo e i primi anni del XIV, un ciclo grandioso che stupì i contemporanei[senza fonte] e segnò una svolta nella pittura occidentale.

Da molti decenni è stata messa in seria discussione la tradizionale attribuzione a Giotto di questo ciclo, soprattutto ad opera di studiosi e critici d'arte di area anglosassone (Rintelen, Oertel, Meiss), dando origine alla cosiddetta questione giottesca. Gli studiosi italiani rimangono invece in buona parte convinti della bontà della tesi vasariana della sicura attribuzione a Giotto. Di recente l'intervento di Bruno Zanardi, restauratore della Basilica di Assisi dopo il terremoto del 1997, ha dato un altro forte scossone alla secolare diatriba[2], ribadendo l'opinione di Federico Zeri che riconosceva la mano di un pittore di scuola romana, forse Pietro Cavallini, l'unico grande pittore gotico che stranamente non è presente nel Cantiere di Assisi, dove invece lavorarono gli altri pittori romani suoi contemporanei Jacopo Torriti e Filippo Rusuti. L'entrata in scena di Giotto sarebbe quindi da rinviare al 1297, quando realizzò gli affreschi della Cappella di San Nicola nella Basilica Inferiore con l' Annunciazione sulla parete d'ingresso e le due scene dei Miracoli post morte di San Francesco e della Morte e Resurrezione del Fanciullo di Suessa, che mostrano evidenti affinità tecniche ed esecutive con la Cappella degli Scrovegni mentre si differenziano dal ciclo Francescano.

Il ciclo francescano illustra puntualmente il testo della Legenda compilata da san Bonaventura e da lui dichiarata unico testo ufficiale di riferimento per la biografia francescana. Sotto ad ogni scena compare una didascalia descrittiva tratta dai diversi capitoli della Legenda via via illustrati.

Questo ciclo è da molti considerato l'inizio della modernità e del dipingere latino. La tradizione iconografica sacra, infatti, poggiava sulla tradizione pittorica bizantina e quindi su un repertorio iconografico codificato nei secoli; il soggetto attuale (un santo moderno) e un repertorio di episodi straordinari (solo per fare un esempio: nessuno mai, prima di san Francesco, aveva ricevuto le stigmate) fecero sì che il pittore negli affreschi dovesse creare ex-novo modelli e figure, attingendo solo in parte ai modelli di pittori che si erano già cimentati in episodi francescani su tavola (come Bonaventura Berlinghieri o il Maestro del San Francesco Bardi). Accanto a ciò va registrato il nuovo corso degli studi biblici (portati avanti proprio dai teologi francescani e domenicani) che prediligeva la lettura dei testi nel loro senso letterale (senza troppi simbolismi e rimandi allegorici) desiderando condurre il fedele ad un incontro il più possibile vivo ed immedesimativo con il testo sacro. Ciò favorì la scelta di rappresentazioni in abiti moderni e che sottolineassero l'espressione del vissuto.
 

Giotto, Storie di san Francesco, La cacciata dei diavoli da Arezzo


La cacciata dei diavoli da Arezzo (dettaglio)

 

 

 

La Croce di Santa Maria Novella


Giotto di Bondone, Crocifisso di Santa Maria Novella, 1290, tempera su tavola, 578 x 406 cm, Firenze, Santa Maria Novella


Il primo capolavoro fiorentino è la grande Croce di Santa Maria Novella, citata come opera giottesca in un documento del 1312 da tale Ricuccio di Puccio del Mugnaio e anche dal Ghiberti, ma probabilmente databile attorno al 1290 contemporaneo, quindi, alle Storie di San Francesco della Basilica Superiore.[3]

È il primo soggetto che Giotto affronta in maniera rivoluzionaria, in contrasto con l'iconografia ormai canonizzata da Giunta Pisano del Christus patiens inarcato sinuosamente a sinistra. Giotto invece dipinse il corpo morto in maniera verticale, con le gambe piegate che ne fanno intuire tutto il peso. La forma non più nobilitata dai consueti stilemi divenne così assolutamente umana e popolare.

In queste novità è contenuto tutto il senso della sua arte e della nuova sensibilità religiosa che restituisce al Cristo la sua dimensione terrena e da questa trae il senso spirituale più profondo. Solo l'aureola ricorda la sua natura divina, ma mostra le sembianze di un uomo umile realmente sofferente, con il quale l'osservatore potesse confrontare le sue pene.

In quegli anni Giotto era già un pittore affermato, capace di creare una schiera di imitatori in città, pur rappresentando soltanto l'anticipatore di una corrente d'avanguardia che si impose più tardi.

Il contesto toscano e fiorentino dell'epoca era animato da grandi fermenti innovativi, che influenzarono Giotto: a Pisa la bottega di Nicola Pisano e poi del figlio Giovanni aveva cominciato un percorso di recupero della pienezza della forma e dei valori dell'arte classica aggiornata con influssi gotici transalpini, mentre Siena, in contatto privilegiato con molti centri culturali europei, aveva visto l'innesto di novità gotiche sulla tradizione bizantina nella pittura di un artista del calibro di Duccio di Buoninsegna.

Arte in Toscana | Giotto di Bondone | La Croce di Santa Maria Novella

 

Giotto di Bondone, Crocifisso di Santa Maria Novella, 1290, Firenze, Santa Maria Novella

 

 

Le Stigmate di san Francesco


Di precoce datazione è considerata anche la tavola firmata proveniente da Pisa e conservata al Louvre di Parigi, raffigurante le Stigmate di San Francesco in cui le storie della predella sono direttamente riprese dalle scene assisiati: questo da taluni viene considerato motivo a sostegno della attribuzione del Ciclo francescano a Giotto.

 

 


Secondo viaggio a Roma


Fino al 1300 c'è un vuoto di alcuni anni nella produzione di Giotto. Alcuni critici hanno ipotizzato che potesse essere chiamato a Roma dai Papi, magari desiderosi di altre opere dell'artista dopo le realizzazioni ad Assisi, soprattutto in occasione del giubileo del 1300 indetto da Papa Bonifacio VIII.

Quindi può darsi che Giotto abbia lavorato a Roma tra il 1297 e il 1300, esperienza della quale non rimangono tracce significative e, per questo, non è possibile ancora giudicare la sua influenza sui pittori romani, o al contrario, quanto il suo stile venne influenzato dalla scuola romana.

Nella basilica di San Giovanni in Laterano è conservato, tuttavia, un piccolo frammento di un ciclo ben più vasto, forse riferibile a Giotto, a questo soggiorno o a quello successivo.

 

 

Rientro a Firenze

Da documenti catastali del 1301 e 1304 si conoscono le sue proprietà in Firenze, che erano cospicue e per questo si ipotizza che, all'incirca verso i trent'anni, Giotto fosse già a capo di una bottega capace di ovviare alle più prestigiose commissioni del tempo.

In questo periodo dipinse il Polittico di Badia (Galleria degli Uffizi) e, in virtù della fama diffusa in tutta l'Italia, venne chiamato a lavorare a Rimini e Padova.

 

 


Rimini


La presenza di Giotto a Rimini non è databile con precisione ma si presume possa essere collocata tra gli anni di Padova ed il ritorno ad Assisi, prima o dopo il soggiorno padovano. Sicuramente anteriore al 1309, viene collocata circa al 1303.

A Rimini, come ad Assisi, lavorò in un contesto francescano, nella chiesa già di san Francesco, oggi nota come Tempio Malatestiano, dove dipinse un ciclo di affreschi perduto, mentre resta ancora nell'abside la Croce.

Confrontando il dipinto con le altre croci di Giotto (prime fra tutti la vicina Croce nella Cappella degli Scrovegni) appare chiaro come siano mancanti la cimasa e terminali(o capi croce), ritrovate invece da Federico Zeri nel 1957 nella collezione Jeckyll di Londra.

L'autografia della Croce non è condivisa da tutti gli studiosi: pur mostrando le qualità tipiche della sua pittura, potrebbe trattarsi di un'opera di bottega come molte uscite con la sua firma e dipinta da un suo disegno.
Il soggiorno di Rimini è importante, soprattutto, per l'influenza esercitata sulla locale scuola pittorica e miniatoria detta appunto scuola riminese, che ebbe tra i maggiori esponenti Giovanni e Pietro da Rimini. Proprio da una Croce di Giovanni, visibilmente derivata da Giotto e dalla sicura datazione al 1309, si è potuto porre il limite massimo alla presenza di Giotto in città.
 

Giotto di Bondone, Crocifisso, 1310-1317
Rimini, Tempio Malatestiano

 

 

Padova


Cappella degli Scrovegni


Del soggiorno padovano sono perduti gli affreschi della Basilica di Sant'Antonio e del Palazzo della Ragione che furono però realizzati in un secondo soggiorno.

Gli affreschi residui della Basilica di Sant'Antonio (Stigmate di San Francesco, Martirio di Francescani a Ceuta, Crocifissione e Teste di Profeti) sono, per quel poco che è possibile intuire, frutto del lavoro dei collaboratori e molto simili tecnicamente a quelli della successiva Cappella della Maddalena della Basilica inferiore di Assisi.

Gli affreschi perduti del Palazzo della Ragione (commissionati, molto probabilmente da Pietro d'Abano), terminato nel 1309, sono citati in un libello del 1340, la Visio Aegidii Regis Patavi del notaio Giovanni da Nono, che li descrive con toni entusiastici, testimoniando che il soggetto astrologico del ciclo era tratto da un testo molto diffuso nel XIV secolo, il Lucidator, che spiegava i temperamenti umani in funzione degli influssi degli astri. Padova era al tempo un centro universitario culturalmente molto fervido, luogo d'incontro e di confronto tra umanisti e scienziati e Giotto è partecipe di questa atmosfera.

Anche i pittori dell'Italia del nord subirono l'influenza di Giotto: Guariento, Giusto de' Menabuoi, Jacopo Avanzi e Altichiero fusero infatti il suo linguaggio plastico e naturalistico con le tradizioni locali.

 

 

Cappella degli Scrovegni


 
Resta invece intatto il ciclo di affreschi con Storie di Anna e Gioacchino, di Maria, di Gesù, Allegorie dei Vizi e delle Virtù e Il Giudizio Universale della Cappella di Enrico Scrovegni dipinta tra il 1303 e il 1305. L'intero ciclo è considerato un capolavoro assoluto della storia della pittura e, soprattutto, il metro di paragone per tutte le opere di dubbia attribuzione giottesca, visto che sull'autografia del maestro fiorentino in questo ciclo non ci sono dubbi.

Enrico Scrovegni, ricchissimo banchiere patavino, acquistò il terreno nel 1300, nel 1302 cominciò la costruzione della cappella che si trovava a ridosso del palazzo di famiglia poi distrutto. Nel 1304 il papa Benedetto XI promulgava un'indulgenza in favore di coloro che l'avessero visitata. L'edificio fu consacrato proprio nel 1305 e presumibilmente gli affreschi dovevano essere ormai terminati per quella data.

Giotto dipinse l'intera superficie con un progetto iconografico e decorativo unitario, ispirato da un teologo agostiniano di raffinata competenza, recentemente identificato in Alberto da Padova. Tra le fonti utilizzate ci sono molti testi agostiniani, i Vangeli apocrifi dello Pseudo-Matteo e di Nicodemo, la Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze e, per piccoli dettagli iconografici, le Meditazioni sulla vita di Gesù dello Pseudo-Bonaventura. Ma anche testi della tradizione medievale cristiana, tra cui il Fisiologo. Giotto dipinse, dividendolo in 40 scene, un ciclo incentrato sul tema della Salvezza.

Si parte dalla lunetta in alto sull'arco trionfale, dove Dio avvia la riconciliazione con l'uomo, si prosegue sul registro più alto della parete nord con le storie di Gioacchino ed Anna: in scene come la Cacciata di Gioacchino dal tempio si riscontrano alcuni elementi tipici dell'arte di Giotto: ambientazione architettonica in prospettiva intuitiva, nella quale si dispongono i personaggi, resa delle figure umane realistica e non stilizzata, eloquenza di gesti e espressioni, vivace narrazione, solennità senza fronzoli della composizione, presenza di linee di forza che guidano l'occhio dell'osservatore.

Si continua sulla parete opposta con le storie di Maria, dalla nascita allo sposalizio con Giuseppe. Lo stile di Giotto si evolse tramite la ricerca di una pittura capace di rendere l'umanità dei personaggi sacri. Tra i brani più suggestivi ci sono gli ambienti naturali e le architetture costruite come vere e proprie scatole prospettiche, che a volte vengono ripetute per non contraddire il rispetto dell'unità di luogo, come la casa di Anna, o il Tempio la cui architettura è ripetuta identica anche se ripresa da diverse angolature.

Si torna sull'arco trionfale con la scena dell'Annunciazione e il riquadro della Visitazione. A questo punto sul secondo registro della parete nord iniziano le storie della vicenda terrena di Gesù, che si svolgono lungo i due registri centrali delle pareti, con un passaggio sull'arco triofale nel riquadro del Tradimento di Giuda. L'ultimo riquadro presenta la Discesa dello Spirito Santo sugli apostoli (Pentecoste). Subito sotto inizia il percorso del quarto registro, costituito da quattordici allegorie monocrome, alternate a specchi in finto marmo, che simboleggiano i Vizi e le Virtù: la parete nord presenta le allegorie di sette vizi (Stultitia, Inconstantia, Ira, Iniusticia, Infidelitas, Invidia, Desperatio); lungo la parete sud sono raffigurate le allegorie delle sette virtù, le quattro cardinali (Prudencia, Fortitudo, Temperantia, Iusticia) e le tre teologali (Fides, Karitas, Spes). Il nome del vizio o della virtù, in latino medievale, è scritto in alto e indica chiaramente che cosa rappresentino queste immagini. Vizi e virtù si fronteggiano a coppia. L'obiettivo da coronare è il raggiungimento del Paradiso, superando con la cura delle virtù corrispondenti gli ostacoli posti dai vizi. L'ultima scena, che occupa l'intera controfacciata rappresenta il Giudizio Universale e la visione del Paradiso.



Stile degli affreschi


   

Nella cappella, la pittura di Giotto dimostrò una piena maturità espressiva:

* la composizione rispettava il principio del rapporto organico tra architettura e pittura ottenendo il risultato di un complesso unitario,
* i riquadri sono tutti di identica dimensione,
* i partimenti decorativi, le architetture simulate ed i due finti coretti prospettici che simulano un'apertura sulla parete, sono tutti elementi che obbediscono ad una visione unitaria, non solo prospettica ma anche cromatica; domina infatti il blu intensissimo della volta che si ripete in ogni scena.

Le figure sono solide e voluminose e rese ancora più salde dalle variazioni cromatiche, i toni dei colori si schiariscono nelle zone sporgenti. Alcuni accorgimenti tecnici arricchiscono di effetti materici tutto l'ambiente:

* Stucco lucido o stucco romano fu usato per i finti marmi;
* Parti metalliche furono inserite nell'aureola del Cristo Giudice nel Giudizio;
* Alcune tavole lignee furono inserite nel muro;
* Venne usato l'encausto nelle figure a finto rilievo.

Ci sono numerose citazioni dall'arte classica e dalla scultura gotica francese, incentivata dal confronto con le statue sull'altare di Giovanni Pisano, ma, soprattutto, una maggiore espressività negli sguardi intensi dei personaggi e nella loro gestualità.

Molte sono le notazioni narrative ed i particolari, anche minori, di grande suggestione, gli oggetti, gli arredi le vesti che rispecchiano l'uso, la moda del tempo. Alcuni personaggi sono veri e propri ritratti a volte caricaturali che danno il senso della trasposizione cronachistica della vita reale nella rappresentazione sacra.

Arte in Toscana | Giotto, Giudizio universale, affresco nella Cappella degli Scrovegni a Padova

Images of Giotto di Bondone, Last Judgment

 

 

 

La Croce di Padova


Nel Museo civico di Padova è conservata una Croce dipinta proveniente dall'altare della cappella degli Scrovegni, raffinatissima per la ricchezza decorativa dei colori smaltati e per l'andamento sagomato del supporto dal disegno gotico, oltre che per il realismo nella figura del Cristo e nell'atteggiamento sofferente di Maria e di San Giovanni nei tabelloni laterali.
Il Crocifisso di Padova risale pressappoco allo stesso periodo della Cappella degli Scrovegni,
quindi è databile intorno al 1305.
Il Crocifisso di Giotto a Padova è una croce sagomata, ora conservata ai Musei degli Eremitani già nella Cappella degli Scrovegni.

Dipinta sui due lati, la Croce è probabilmente contemporanea agli affreschi della cappella (1303-1305). Affrescata a tempera su tavola di pioppo, incastonata in una cornice intagliata a raffinati motivi vegetali, i lobi delle braccia le danno un impianto formale innovativo, ma rinnova anche il linguaggio figurativo rispetto al secolo precedente, risultando più naturalistica, meno esasperata e straziata, ma non per questo meno efficace. La figura di Gesù mostra una notevole umanizzazione dovuta alla posizione e alla struttura del Crocifisso.

La Croce ha trovato la sua collocazione attuale dopo un accurato restauro.

 

Giotto di Bondone, Crocifisso, 1317 circa,
Padua, Museo Civico

 

 

La Basilica inferiore di Assisi


Tra il 1306 ed il 1311 fu di nuovo ad Assisi per eseguire gli affreschi della zona del transetto della Basilica inferiore che comprendono: le Storie della Vita di Cristo, le Allegorie francescane sulle vele, e la Cappella della Maddalena. In realtà la mano del maestro è quasi assente e per le numerose commissioni lasciò la stesura a personalità della sua cerchia.

La commissione fu del Vescovo Teobaldo Pontano in carica dal 1296 al 1329, e il lavoro si protrasse per molti anni coinvolgendo numerosi aiuti: Parente di Giotto, Maestro delle Vele e Palmerino di Guido (quest'ultimo citato assieme al maestro in un documento del 1309 in cui s'impegna a pagare un debito).

La seconda presenza di Giotto nella città umbra inizierebbe nel 1305-1306 e durerebbe fino al 1311 cioè dopo il soggiorno padovano per dipingere la Cappella della Maddalena dove è ritratto il committente Teobaldo Pontano vescovo dal 1296 al 1329.

La storia è tratta dalla Legenda aurea di Jacopo da Varazze; per la Maddalena i Francescani avevano un culto particolare. Giotto trasportò ad Assisi i progressi fatti a Padova, nelle soluzioni scenografiche e nella spazialità, nella tecnica e, soprattutto, nella qualità dei colori chiari e caldi.

Agli episodi della vita di Maddalena vennero aggiunti quelli di Marta e di Lazzaro.

Le Allegorie Francescane occupano le vele della volta del transetto: Povertà, Castità, Obbedienza, la Gloria di San Francesco e le scene del ciclo della Vita di Cristo sono disposte lungo le pareti e le volte del transetto destro.

Un documento del 4 giugno del 1309 testimonia la presenza dell'artista in città insieme all'aiuto Palmerino di Guido ma i collaboratori erano sicuramente numerosi viste le dimensioni dell'impresa. La vivacità delle scene, le soluzioni scenografiche e spaziali di ampio respiro ed alcune citazioni dirette del ciclo padovano hanno messo d'accordo studiosi e critici sull'appartenenza del progetto generale degli affreschi a Giotto, ma la realizzazione pittorica fu delegata ai membri della bottega, le cui identità sono ancora celate dietro nomi come Parente di Giotto, Maestro delle Vele e Maestro della Cappella di San Nicola, Maestro Espressionista di Santa Chiara. Alcuni di questi seguaci, probabilmente umbri, diffusero lo stile giottesco nelle chiese della zona.


Di nuovo a Firenze


Nel 1311 era già tornato a Firenze, ci sono anche documenti del 1314 relativi alle sue attività economiche extra pittoriche.

La presenza a Firenze è sicuramente documentata negli anni 1314, 1318, 1320, 1325, 1326 e 1327. Nel 1327, in particolare, si iscrisse all'Arte dei Medici e Speziali che, per la prima volta, accoglieva i pittori.


Terzo viaggio a Roma


Nel 1313, in una lettera, incaricò Benedetto di Pace di recuperare le masserizie presso la proprietaria della casa affittata Roma; il documento è la testimonianza del terzo soggiorno romano, avvenuto entro l'anno in cui eseguì il Mosaico della Navicella degli Apostoli per il portico dell'antica Basilica di San Pietro in Vaticano su commissione del Cardinale Jacopo Caetani Stefaneschi, arciprete e benefattore della Basilica oltre che Diacono di San Giorgio al Velabro, che lo pagò ben duecento fiorini e, per l'occasione, compose dei versi da inserire nel mosaico.

La lunetta della Navicella doveva fare parte di un ciclo musivo più ampio. La lunetta venne ampiamente rifatta e oggi parrebbe originale dell'epoca di Giotto solo un angelo.

Una copia fu disegnata da due artisti del Quattrocento, Pisanello e Parri di Spinello, e si trova al Metropolitan Museum of Art di New York. Due tondi con i volti di angeli, facenti parte del ciclo, sono conservati rispettivamente: alla chiesa di San Pietro Ispano di Boville Ernica (Frosinone) e nelle Grotte vaticane.

Dai disegni, fatti prima della sua distruzione, si può ricostruire la composizione: raffigurava la barca degli apostoli in piena tempesta, sulla destra Pietro salvato da Cristo mentre a sinistra si vedeva una città turrita. Il soggetto era ispirato da opere tardo-antiche e paleocristiane, che Giotto aveva avuto sicuramente occasione di vedere a Roma, alimentando un rapporto di dialogo continuo col mondo classico.

I due tondi sono realizzati con una tecnica identica a quella delle botteghe romane della fine del duecento e, probabilmente, sono opera di maestranze locali che eseguirono i cartoni dell'artista fiorentino il cui stile è riconoscibile dalla solidità del modellato dall'aspetto monumentale delle figure.


La Madonna di Ognissanti e altre opere fiorentine


Giotto, Madonna in maestà (pala di Ognissanti), 1310 circa, tempera su tavola, cm 325 x 204, Firenze Galleria degli Uffizi


Roma fu una parentesi in un periodo nel quale Giotto risiedette soprattutto a Firenze. In questo periodo dipinse le opere della sua maturità artistica come la Maestà di Ognissanti, la Dormitio Virginis della Gemäldegalerie di Berlino, la Croce di Ognissanti.

Nella Dormitio Virginis riuscì ad innovare un tema ed una composizione antica grazie alla disposizione dei personaggi nello spazio. Il Crocifisso di Ognissanti, ancora in loco, fu dipinto per gli Umiliati ed è simile alle analoghe figure di Assisi tanto che si è pensato al cosiddetto Parente di Giotto.

La Maestà degli Uffizi va confrontata con due celebri precedenti di Cimabue e Duccio di Boninsegna, nella stessa sala del Museo, per comprenderne la modernità di linguaggio. Il trono di gusto gotico in cui si inserisce la figura possente e monumentale di Maria è disegnato con una prospettiva centrale, la Vergine è accerchiata da una schiera di Angeli e da quattro santi che si stagliano evidenziandosi plasticamente dal fondo oro.
Il dipinto, su tavola di 325 x 204 cm, rappresenta un forte rinnovamento della pittura di Giotto, la Madonna viene rappresentata in vesti nere seduta su un grande trono, sulla cui gamba si poggia il Gesù bambino.
La pala presenta un senso di profondità ed una plasticità delle forme, il busto della Madonna si dispone un po’ di sbieco e la faccia risolutamente di trequarti: a cementare l’unità plastica, la tunica forma decise pieghe diagonali che segnano, per così dire, la direttrice del movimento,e, pur senza grandi accentuazioni chiaroscurali, acquistano grande intensità plastica, a contrasto come sono del mando nero che cade quasi a piombo. E la testa, inclinando sulla spalla asseconda il movimento avvolgente delle pieghe del mando, che, col lembo di sinistra, si dispone in una curva concentrica alle pieghe del busto.

Ai piedi del trono due angeli inginocchiati con in mano della ampolle con rose e gigli, simboli mariani, probabilmente tra i primi esempi di natura morta. In piedi due figure, la sinistra con in mano una corona mentre a sinistra ha in mano uno cofanetto. L’immagine della Madonna è sproporzionata rispetto alle figure raffigurate accanto, questo aspetto è una scelta precisa dell’autore dovuta alla necessità di porre in risalto quanto più possibile la figura della Vergine e del Bambino ai fedeli.

La vergine trattine il Bambino con la mano sinistra, il quale viene raffigurato con una veste rosa antico, con rifiniture in oro. Il Bambino si pone in posizione di benedizione.

Art in Tuscany | Giotto di Bondone | Madonna in maestà (pala di Ognissanti)

 

 

 


Gli affreschi di Santa Croce


Giotto, Cappella Bardi, Esequie di San Francesco, Capela Bardi, Santa Croce, Firenze


Nel 1318, secondo quanto attesta Ghiberti, cominciò a dipingere quattro cappelle ed altrettanti polittici per quattro diverse famiglie fiorentine nella chiesa dei francescani di Santa Croce: la Cappella Bardi (Vita di San Francesco), la Cappella Peruzzi (Vita di San Giovanni Battista e di San Giovanni Evangelista più il polittico con Taddeo Gaddi), e le perdute Cappelle Giugni (Storie degli Apostoli) e Tosinghi Spinelli (Storie della Vergine) di cui rimane l' Assunta del Maestro di Figline. Di queste cappelle tre erano situate nella zona alla destra della cappella centrale e una in quella alla sinistra: restano solo le prime due a destra: le Cappelle Bardi e Peruzzi.
 

 

 

La Cappella Peruzzi


Giotto, Ascensione di san Giovanni Evangelista, 1320, affresco, 280 x 450 cm, Capela Peruzzi, Santa Croce, Firenze


La Cappella Peruzzi, con gli affreschi della Vita di San Giovanni Battista e di San Giovanni Evangelista, ebbe una grande considerazione anche nel Rinascimento; lo stato di conservazione attuale è fortemente compromesso da diversi fattori succedutisi nel tempo, ma non impedisce di vedere la qualità delle figure rese plasticamente da un attento uso del chiaroscuro e caratterizzate dallo studio approfondito dei problemi di resa e rappresentazione spaziale.

I brani più suggestivi sono le stupende architetture degli edifici contemporanei dilatati in prospettiva che continuano, anche, oltre le cornici delle scene fornendo un'istantanea dello stile urbanistico del tempo di Giotto. All'interno di queste quinte prospettiche, si sviluppano le storie sacre composte in maniera calibrata nel numero e nel movimento dei personaggi. Le architetture sono inoltre disposte in maniera più espressiva, con vivi spigoli che forzano alcune caratteristiche delle scene.

Si nota un'evoluzione dello stile di Giotto, con panneggi ampi e debordanti come mai visto prima che esaltano la monumentalità delle figure.

La sapienza compositiva di Giotto divenne motivo di ispirazione per artisti successivi come ad esempio Masaccio per gli affreschi della Cappella Brancacci nella Chiesa del Carmine (che copiò per esempio i vecchioni nella scena della Resurrezione di Drusiana) e Michelangelo ben due secoli dopo, che ne copiò varie figure.

Dalla stessa cappella proviene il Polittico Peruzzi che fu smembrato e disperso in diverse collezioni fino al ricongiungimento nell'attuale collocazione presso il Museo d'arte della Carolina del Nord di Raleigh che rappresenta la Madonna con figure di Santi tra cui i due Giovanni e San Francesco, lo stile figurativo è simile a quello della cappella anche se i santi sono inseriti in un contesto neutro e non ricco di elementi decorativi ma, comunque, molto saldi nella loro volumetria.
 

 

 


La Cappella Bardi


Giotto, Cappella Bardi, Esequie di San Francesco, Capela Bardi, Santa Croce, Firenze


Completata la Cappella Peruzzi attese probabilmente ad altri lavori a Firenze, in massima parte perduti, come l'affresco della cappella maggiore della Badia Fiorentina, di cui restano alcuni frammenti, come la Testa di pastore alla Galleria dell'Accademia.

L'altra Cappella di Santa Croce è la Bardi che narra episodi della Vita di San Francesco e figure di Santi francescani. Fu recuperata nel secolo scorso dopo uno scialbo operato nel Settecento ed è interessante notare le differenze stilistiche con l'analogo ciclo assisiano di più di 20 anni prima, a fronte di un'iconografia sostanzialmente identica.

Giotto preferì dare maggiore importanza alla figura umana, accentuandone i valori espressivi, probabilmente, per assecondare la svolta in senso pauperistico dei Conventuali operata in quegli anni. Il santo appare insolitamente imberbe in tutte le storie.

Le composizioni sono molto semplificate (c'è chi parla di "stasi inventiva" del maestro), ed è la disposizione delle figure a dare il senso della profondità spaziale come nel caso delle Esequie di San Francesco. Più notevole è però la resa delle emozioni con gesti eloquenti, come quelli dei confratelli che si disperano davanti alla salma distesa, con gesti ed espressioni incredibilmente realistici.
 

 

 

Il Polittico Baroncelli


Sull'altare della Cappella Baroncelli (poi affrescata da Taddeo Gaddi) è situato il Polittico databile al 1328, mancante della cuspide che si trova nella Timken Art Gallery di San Diego (California), mentre la cornice originale è stata sostituita da una quattrocentesca. Il soggetto rappresentato è l' Incoronazione della Vergine attorniata da un'affollata Gloria di Angeli e Santi.

Nonostante la firma ("Opus Magistri Jocti"), il ricorso agli aiuti per l'esecuzione è ampio e c'è un accentuato gusto scenografico e cromatico, creato da un'infinità di tinte finissime. La profondità è invece minore, visto che lo spazio è riempito di figure, che sono varie sia per le tipologie dei volti che per le espressioni.


Opere incerte, riferibili a questo periodo


Di questo periodo sono conservate molte altre tavole giottesche, spesso parti di polittici smembrati, nei quali si presenta sempre il problema dell'autografia che non è mai sicura.

Una delle più dibattute in questo senso è la Croce dipinta di San Felice di Piazza. Il Polittico di Santa Reparata è attribuito al Maestro con la collaborazione del Parente di Giotto, il Santo Stefano della Collezione Horne di Firenze è probabilmente opera autografa e viene associata come resto di un'unica opera a due frammenti: il San Giovanni Evangelista e il San Lorenzo entrambi del Museo Jacquemart-André di Chaalis (Francia) e la bellissima Madonna col Bambino della National Gallery di Washington.

In vari musei sono sparse anche tavolette di piccole dimensioni: la Natività e Adorazione dei Magi del Metropolitan Museum of Art di New York (simile alle scene di Assisi e Padova), la Presentazione di Gesù al Tempio (Boston, Isabella Stewart Gardner Museum), l' Ultima Cena, Crocifissione e Discesa al Limbo della Alte Pinakothek di Monaco, la Deposizione della Collezione Berenson a Firenze e la Pentecoste (National Gallery di Londra), che secondo lo storico Ferdinando Bologna faceva parte di un polittico ricordato dal Vasari a Sansepolcro.

 

 

Il Polittico Stefaneschi


Il 1320 è l'anno del Polittico Stefaneschi (Musei Vaticani), commissionato per l'altare maggiore della Basilica di San Pietro dal cardinale Jacopo Stefaneschi, che incaricò Giotto anche di decorare la tribuna dell'abside di San Pietro con un ciclo di affreschi perduto nel rifacimento del XVI secolo.

Il polittico venne ideato dal maestro, ma dipinto insieme agli aiuti, ed è caratterizzato da una grande varietà cromatica a scopo decorativo; l'importanza del luogo a cui era destinata imponeva l'uso del fondo oro dal quale le figure monumentali si stagliano con grande sicurezza. Dipinto su entrambi i lati rappresenta sul verso il Cristo in trono con i martiri di San Pietro e di San Paolo (simboli della Chiesa stessa), sul recto San Pietro in Trono, negli scomparti e nelle predelle la Vergine col bambino in Trono con diverse figure di Santi e Apostoli.

Secondo Vasari, Giotto sarebbe rimasto a Roma sei anni, eseguendo poi anche commissioni in molte altre città italiane, fino alle sede Papale di Avignone. Il biografo aretino citò anche opere non giottesche, ma comunque descrisse un pittore moderno, impegnato su diversi fronti e circondato da molti aiuti.

In seguito tornò a Firenze, dove affrescò la già menzionata Cappella Bardi. Poco prima della sua partenza da Firenze nel 1327, l'artista si iscrisse per la prima volta all'Arte dei Medici e Speziali insieme agli allievi più fedeli Bernardo Daddi e Taddeo Gaddi che lo seguirono nelle ultime imprese.

 

 

Napoli


Nel 1328, dopo aver terminato il Polittico Baroncelli, venne chiamato dal re Roberto d'Angiò a Napoli e vi rimase fino al 1333, insieme alla nutrita bottega. Il Re lo nominò "famigliare" e "primo pittore di corte e nostro fedele" (1333), a testimoniare l'enorme considerazione che Giotto aveva ormai raggiunto. Gli assegnò anche uno stipendio annuo.

La sua opera è molto ben documentata (ne rimane il contratto, utilissimo per conoscere come era strutturato il lavoro nella sua bottega), ma a Napoli rimane oggi molto poco dei suoi lavori: un frammento di affresco raffigurante la Lamentazione sul Cristo Morto in Santa Chiara e le figure di Uomini Illustri dipinte negli strombi delle finestre della Cappella di Santa Barbara in Castelnuovo, che per disomogeneità stilistiche sono attribuibili ai suoi allievi.

Molti di questi divennero affermati maestri a loro volta diffondendo e rinnovando il suo stile nei decenni successivi (Parente di Giotto, Maso di Banco, Taddeo Gaddi, Bernardo Daddi).

La sua presenza a Napoli fu importante per la formazione dei pittori locali, come il Maestro di Giovanni Barrile, Roberto d'Oderisio e Pietro Orimina.

A Firenze, intanto, agiva come procuratore del padre il figlio Francesco, che venne immatricolato nel 1341 nell'arte dei Medici e Speziali.


Bologna

Dopo il 1333 si recò a Bologna, dove rimane il Polittico firmato proveniente dalla chiesa di Santa Maria degli Angeli, su fondo oro, con lo scomparto centrale raffigurante la Madonna in Trono e sui laterali San Pietro, l'Arcangelo Gabriele, Michele Arcangelo e San Paolo, tutte figure solide, come consuetudine in questa fase ultima della sua attività, dai panneggi fortemente chiaroscurati, dai colori brillanti e con un linguaggio che lo avvicina alla cultura figurativa padana come nella figura di Michele Arcangelo che ricorda gli angeli di Guariento.

Non resta traccia, invece, della presunta decorazione della Rocca di Galliera del legato pontificio Bertrando del Poggetto, ripetutamente distrutta dai bolognesi.


Opere tarde

Sulla scia di queste considerazioni è possibile collocare nella fase ultima della sua carriera altri pezzi erratici come: la Crocifissione di Strasburgo (Museo Civico) e quella della Gemäldegalerie di Berlino.


Architetto per Firenze

Trascorse gli ultimi anni lavorando anche come architetto, quasi sempre a Firenze dove è nominato il 12 aprile del 1334 Capomaestro dell'Opera di Santa Reparata (cioè dei cantieri aperti in piazza del Duomo) e soprintendente delle opere pubbliche del Comune. Per questo incarico percepiva uno stipendio annuo di cento fiorini. Secondo il Giovanni Villani cominciò il 18 luglio dello stesso anno il lavoro di fondazione del Campanile del Duomo che diresse fino alla costruzione dell'ordine inferiore con i bassorilievi.

Il campanile di Giotto è la torre campanaria di Santa Maria del Fiore, la cattedrale di Firenze, e si trova in piazza del Duomo.
Le sue fondamenta furono scavate attorno al 1298 all'inizio del cantiere della nuova cattedrale, quando capomastro era Arnolfo di Cambio.
La posizione inusuale del campanile, allineato con la facciata, riflette la volontà di conferirgli una grande importanza come segno di forte verticalità al centro della Insula Episcopalis, oltre probabilmente alla necessità pratica di liberare la visuale della zona absidale per la grande cupola, prevista sin dal progetto arnolfiano.
Nel 1334 Giotto di Bondone subentrò nell'incarico di capomastro[1] occupandosi subito della costruzione del primo piano del campanile e disinteressandosi - secondo quanto sostiene una leggenda - del cantiere della basilica.
Giotto fornì un progetto originale del campanile, con una terminazione a cuspide piramidale alta 50 braccia fiorentine (circa 30 metri), secondo cui l'elevazione totale sarebbe dovuta essere di 110-115 metri circa (l'altezza attuale è invece di 84,75 metri).
Un disegno conservato nel Museo dell'Opera del Duomo di Siena è considerato da alcuni studiosi ispirato a questo progetto.


Milano

Prima del 1337, data della morte, andò a Milano presso Azzo Visconti, ma le opere di questa fase sono tutte scomparse. Rimase però traccia della sua presenza soprattutto nell'influenza esercitata sui pittori lombardi del Trecento, come la Crocifissione della chiesa di San Gottardo in Corte.


 

Campanile di Giotto (Firenze)


La morte a Firenze

L'ultima opera fiorentina terminata dagli aiuti è la Cappella del Podestà del Bargello, dove è presente un ciclo di affreschi, oggi in cattivo stato di conservazione (anche per errati restauri ottocenteschi), che raffigura Storie della Maddalena ed Il Giudizio Universale. In questo ciclo è famoso il più antico ritratto di Dante Alighieri, dipinto senza il tradizionale naso aquilino.

Morì l'8 gennaio del 1337 (il Villani riporta la data della morte avvenuta alla fine del 1336 secondo il calendario fiorentino) e venne sepolto in Santa Reparata con una cerimonia solenne a spese del Comune.

 

 

L'importanza artistica


Giotto, Compianto sul Cristo morto, 1304-06, Cappella Scrovegni, Padova



Giotto divenne già in vita un artista simbolo, un vero e proprio mito culturale, detentore di una considerazione che non mutò, anzi crebbe nei secoli successivi.

Giovanni Villani scrisse: "Il più sovrano maestro stato in dipintura che si trovasse al suo tempo, e quegli che più trasse ogni figura e atti al naturale."

Per Cennino Cennini: "Rimutò l'arte di greco in latino e ridusse al moderno" alludendo al superamento degli schemi bizantini e all'apertura verso una rappresentazione che introduceva il senso dello spazio, del volume e del colore anticipando la caccona liquidissma i valori dell'età dell'Umanesimo.

Per la moderna, e consolidata, ricostruzione storico-artistica, a partire dal Berenson, Giotto è l’anticipatore del Rinascimento. Secondo questa visione è Giotto che per primo dà massa corporea e caratterizzazione fisionomica realistica alle figure umane, superando del tutto lo ieratismo bizantino. È Giotto che introduce (o reintroduce dopo la pittura greco-romana) lo spazio in pittura, attraverso l’uso di una prospettiva empirica. Le architetture dipinte con Giotto prendono ad avere un rapporto più realistico (come spazi abitabili) e coerente con i personaggi umani e non sono più una rappresentazione solo simbolica, come ancora in Cimabue. È Giotto infine a dare caratterizzazione psicologica alle sue figure e ad avviare il processo di laicizzazione della pittura.

È a lui che si deve il seme di quell'insieme di valori che sarà riperso e portato alle estreme conseguenze da Masaccio negli affreschi della Cappella Brancacci aprendo le porte al Rinascimento vero e proprio.

Un importante contributo in questo senso furono probabilmente i soggiorni a Roma, che offrirono a Giotto la possibilità di un confronto con la classicità, ma anche con artisti come lo scultore Arnolfo di Cambio ed i pittori della scuola locale: Pietro Cavallini, Jacopo Torriti e Filippo Rusuti, animati dallo stesso spirito di innovazione e sperimentazione operando nei cantieri delle grandi Basiliche inaugurati da Niccolò III e da Niccolò IV.

 

 

La scuola giottesca


Giotto aveva completato le numerose commissioni della sua bottega utilizzando un'organizzazione del lavoro impostata secondo una logica diremmo oggi "imprenditoriale", che prevedeva il coordinamento del lavoro di numerosi collaboratori. Questo metodo, prima usato solo nei cantieri architettonici e dalle maestranze di scultori e scalpellini attivi nelle cattedrali romaniche e gotiche, fu una delle maggiori innovazioni apportate in pittura dalla sua equipe, e spiega anche la difficoltà di lettura e di attribuzione di molte sue opere.

Vasari citò i nomi di alcuni dei più stretti aiutanti, non tutti celebri: Taddeo Gaddi, Puccio Capanna, Ottaviano da Faenza, Guglielmo da Forlì, attraverso cui, insieme con l'opera di un misterioso Augustinus, l'influenza di Giotto arrivò alla scuola forlivese. A questi bisogna aggiungere i molti seguaci e continuatori del suo stile che crearono delle scuole locali nelle zone dove era transitato.

A Firenze ed in Toscana operavano i cosiddetti "protogiotteschi" i seguaci che avevano visto all'opera Giotto nella sua città: Maso di Banco, Giottino, Bernardo Daddi, il Maestro della Santa Cecilia, il Maestro di Figline, Pacino di Bonaguida, Jacopo del Casentino, Stefano Fiorentino. Le vicende biografiche di molti di questi pittori non sono ancora state bene documentate: vita e opere di Giottino o Stefano Fiorentino sono ancora in larga parte misteriose.
Sebbene gli artisti della scuola senese svilupparono un'arte ben diversa da quella di Giotto e più vicina alle deolcezze lineari dell'area transalpina, alcuni di loro rimasero influenzati dalle novità spaziali e volumetriche del maestro fiorentino. In particolare i fratelli Lorenzetti, che ebbero modo di soggiornare durante la loro fase giovanile a Firenze, dipinsero opere dove le figure sono maestose e compatte, avvolti in mantelli colpiti dalla luce in modo da creare sfumature che esaltano la plasticità scultorea dei corpi. Anche la creazione di spazi illusori di sempre maggior complessità e profondità non poté prescindere da una conoscenza delle conquiste di Giotto (come nella Presentazione al Tempio di Ambrogio Lorenzetti, 1342).

In Umbria, lo stile giottesco assunse una connotazione devozionale e popolare riconoscibile nelle opere del Maestro di Santa Chiara da Montefalco, del Maestro espressionista di Santa Chiara, dello stesso Puccio Capanna e del cosiddetto Maestro colorista, un artista di grande livello.

A Rimini nacque una scuola che ebbe un breve periodo di splendore con Neri da Rimini, Giuliano Da Rimini, Giovanni da Rimini, il Maestro dell'Arengario. Tra gli autori di opere interessanti ci fu il Maestro della Cappella di San Nicola, i cui affreschi della Basilica di San Nicola da Tolentino e dell'Abbazia di Pomposa filtrarono la matrice giottesca con influenze locali e, soprattutto, bolognesi. Questa scuola emiliana-romagnola produsse dei capolavori anche nel campo della miniatura.

L'influenza di Giotto si estese, poi, anche alle scuole settentrionali come dimostra l'arte, successiva di due generazioni, di Altichiero, Guariento e Giusto de' Menabuoi. Anche a Napoli la presenza di Giotto lasciò un'impronta duratura, come si evince dalle opere di artisti quali Roberto d'Oderisio (attivo dagli anni '30 del Trecento e menzionato fino al 1382), che decorò la chiesa dell'Incoronata con affreschi di aristocratica eleganza (oggi staccati e conservati a Santa Chiara).

Non è ancora chiaro invece il rapporto tra Giotto e la scuola romana, in particolare gli studiosi non concordano se siano stati i romani (Pietro Cavallini, Jacopo Torriti, ecc.) a influenzare Giotto e i toscani o viceversa. Gli studi più recenti sembrano propendere maggiormente per la prima ipotesi. In ogni caso le attività artistiche a Roma decaddero inesorabilmente dopo il trasferimento del papato ad Avignone nel 1309.

In definitiva quindi Giotto, con i suoi numerosi viaggi, fu il creatore di uno stile "italiano" in pittura, che venne usato da Milano a Napoli, passando per varie regioni. L'influsso di Giotto è presente anche in autori di altre scuole, come la parallela scuola senese, come dimostrano le impostazioni architettoniche di alcune opere per esempio di Pietro e Ambrogio Lorenzetti. L'esperienza giottesca fu inoltre alla base della successiva rivoluzione rinascimentale fiorentina.

 

 

La figura di Giotto nella letteratura


Giotto è protagonista di una novella del Decameron (la quinta della sesta giornata). Egli è citato anche nel Purgatorio dantesco e nel Trecentonovelle di Franco Sacchetti.

 

Giorgio Vasari, Giotto, parete nordovest, Sala Grande, Casa Vasari, Firenze
 
 
   
[1] studi matematico-prospettici erano tra le attività speculative che Witelo, scienziato presente a Viterbo, alla corte pontificia dopo la metà del XIII secolo, aveva appreso dalla scienza araba
[2] Bruno Zanardi, Giotto e Pietro Cavallini.
[3] Da segnalare che comunque per la critica di matrice anglosassone, l'opera non apparterrebbe a Giotto, ma ad una anonima figura che Offner denominò "Santa Maria Novella Master" (R. Offner, Giotto non-Giotto", 1939).
[4] Molto dibattuta e controversa è la datazione del ciclo di affreschi, che rappresenta un momento capitale dell'arte italiana ed europea. Il ciclo di affreschi si lega strettamente con le vicende legate alla contrapposizione tra le fazioni dei conventuali e degli spirituali: quest'ultimi, invocando il diretto insegnamento di povertà di San Francesco si rifiutavano di arricchire i luoghi di culto francescani con opere d'arte. La linea spirituale prevalse nel capitolo generale di Narbona (1260) e ancora nel capitolo generale di Assisi del 1279 quando venne ribadita la scelta aniconica (senza immagini della divinità), nonostante l'opposizione di papa Niccolò III (papa dal 1277 al 1280). Molti indicano in questo papa, energico mecenate, l'iniziatore del ciclo di affreschi, ma è molto plausibile che invece sia stato Niccolò IV (papa dal 1288 al 1295), primo papa francescano che prodigò offerte per la basilica assisiate: con una bolla del 1288 stabilì per esempio che tutte le offerte donate dai pellegrini in visita ad Assisi fossero investite nella decorazione della chiesa. I primi affreschi dovrebbero risalire quindi al 1288. In ogni caso il papa dichiarò la basilica una cappella papale scavalcando i francescani e le loro norme sulla povertà e la sobrietà.
Secondo altri studiosi invece il ciclo pittorico iniziò tra il 1267 e il 1270 quando, secondo le fonti, un "maestro di scuola gotica" e un "maestro di scuola romana" stavano lavorando alla parete destra del transetto nelle scene della vita degli apostoli Pietro e Paolo. La decorazione è continuata dal 1270 al 1280 sulla parete con la finestra, grazie all'opera di un "maestro romano"[1]. In realtà affreschi più antichi si trovano nella basilica inferiore: si tratta di resti di un primo ciclo con Storie di Francesco eseguite da un maestro giuntesco, in parte distrutti dall'apertura delle cappelle sulla navata.
Il programma iconografico della navata principale venne probabilmente formulato da Matteo d'Acquasparta, generale dei francescani tra il 1287 e il 1289: le Storie dell'Antico e Nuovo Testamento vennero disposte nella fascia alta, accanto alle finestre, mentre la zona inferiore, più sgombra e più vicina ai fedeli, doveva essere occupata dalle grandi Storia di San Francesco.


Bibliografia

Fonti


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